
.. ci ha regalato equamente sorrisi e interrogativi. Nel modo più naturale possibile.
... Così cantava Max Gazzè. L'imprevisto è parte della vita. Forse ne costituisce l'aspetto più stimolante, anche quando stravolge negativamente la nostra quotidianità. L'imprevisto genera crisi, ripiegamento, riflessione e sommovimento di idee, che escono dall'incubazione, dalla stasi, e si traducono in variabili e movimento. Perciò va riconosciuto subito e assecondato: l'imprevisto ci spinge alla ricerca. Come questo blog, anche se il fine non è chiaro neppure a me...



Le musiche, i volti, i bicchieri rovesciati raccontavano di una festa. Alcuni sembravano divertirsi, altri si sforzavano di farlo ed io non ero tra quelli. Tra i tavoli festaioli venivano rispettate alla lettera le norme anti-fumo, ma per fortuna l'aria della sera non era fredda e capannelli di persone chiacchieravano agitando lucciole infuocate all'ingresso del locale. Poi, al richiamo della musica preferita rientravano di corsa per disegnare qualche scomposto ballo. Non ho mai saputo ballare e preferivo la sera, i lampioni che vomitavano coni di luce ai bordi della strada, il sapore di un liquido che mi avevano spacciato come birra. Pensavo ad un tempo trascorso, ad un capitolo di vita che oramai si era chiuso e non capivo perchè qualcuno si sforzava di far finta che tutto era come prima, che non era cambiato niente, che potevamo abbracciarci e raccontare di noi come se il tempo non fosse passato. Non capivo la finzione e l'utilità di quell'evento festaiolo, ma forse era un mio problema e me ne stavo sul marciapiede per sfuggire abilmente allo sguardo dei conoscenti. Due donne uscirono dal locale, mi passarono accanto, cominciarono a parlare nell'ombra. La riconobbi subito, non era cambiata, forse un pò più magra, ma comunque sensuale. Parlava, accompagnando ad ogni sillaba un movimento nervoso delle mani. Mi vide e mi ignorò. Poi ci furono dei passi alle mie spalle, percepii una presenza, potevo sentirne il calore e il profumo scadente. Si fermò accanto a me, non mi voltai, ma ebbi la sensazione di essere molto più basso. In effetti quando parlò, la voce mi arrivò dall'alto, ma era una voce sottile che tradiva la possente fisicità.
Stan Getz e J.J. Johnson se la suonavano per bene da un vinile all'inconfondibile sapore di muffa. C'era una festa di strumenti cantanti e c'erano gli applausi del pubblico pagante che interveniva ad ogni solo di sax. Poi c'ero io e un'altro paio di cose che ora non ricordo. La serata aveva offerto una cena onesta, un telegiornale noioso e una sigaretta di tabacco secco. Erano passati giorni grigi di cielo, ma questo era normale perchè l'autunno avanzava facendo il suo lavoro di stagione di merda. Il telefono aveva squillato e una voce di donna aveva cominciato a raccontare di un'amore durato cinque giorni, di un tricologico colore che era tornato a splendere, di eventi più o meno interessanti. Ascoltavo, seguendo le evoluzioni di una mosca sul vetro della finestra, interrompevo quando credevo fosse giusto interrompere, rispondevo quando mi veniva domandato. A volte quella voce diventava risata ed era bella, dolce come il canto di quel sax che ora si era fatto lontano. Quando non si ebbe più nulla da raccontare ci fu un saluto breve e per questo bellissimo. Si tornò alla sera, io alla mia e lei alla sua. 




Se il buongiorno si vede dal mattino (pessimo modo di cominciare una frase) l'ennesima fuga non sortirà grandi rivoluzioni nella mia vita, visto che sto rischiando di lasciarmi alle spalle molti piccoli ma rognosi problemi irrisolti, che prima o poi riaffioreranno all'ordine del giorno, magari sotto forma di fantasmi, che è peggio. Ad ogni modo tra dieci giorni parto, e non nascondo che questa frase, a pronunciarla anche mentalmente, mi dà un brivido al perineo; mi piace credere che i problemi di oggi saranno presto soppiantati da altre preoccupazioni, in parte inedite per la mia psiche: leggi "lavoro". E ciò è bello. Mi rendo conto che sto partendo proprio per questo, per erigere un nuovo spartiacque artificiale tra due giovinezze, per sbarazzarmi concretamente dell'annosa emicrania universitaria ed accedere alla lucidità o all'ebbrezza motivata.
Non mi va di fare grandi progetti. A vent'anni mi pareva tutto possibile perché non avevo alcuna necessità.
Ho voglia di kebab. Incomincia a mancarmi Parigi, e non me lo sarei mai aspettato. Si tratta però di una mancanza indolore, di una nostalgia tenera, senza rimpianti. Perché in fondo non è la città che mi manca, non è la gente, ma quel modo di vivere una città come fosse il Monopoli, o un altro gioco qualsiasi, magari una caccia al tesoro. E questo posso farlo anche a Barcellona.
E poi l'estate è finita: ecco un'altra frase che mi arrazza.
Non mi pare inopportuno che la felicità si fondi sul nulla, anzi.



E' colpa tua. Charlie. Eri mio fratello. Avresti dovuto occuparti di me. Avresti dovuto prenderti cura di me almeno un pò invece di farmi prendere tutte quelle botte solo per un pò di soldi. Non capisci... Io avevo classe. Avrei potuto essere grande. Avrei potuto diventare qualcuno invece di essere il vagabondo che sono. Guardiamo in faccia la verità. E' colpa tua. Charlie. E' colpa tua. Charlie.
E fu così che si passò al francofono linguaggio. Non restò che intuire il significato, il senso, ma soprattutto immaginare lo sguardo di lei mentre sillabava. La stagione si era fatta più tranquilla, il malessere era passato o almeno si era nascosto bene. Aveva tolto alla sua vita un prefisso e iniziava lentamente ad occuparsi di ciò che lo affascinava. Era riuscito a convincere i suoi sogni a spingersi un pò più lontano, stava capendo lentamente che alcune cose bisognava prenderle di sguincio. 


Per tanto tempo sono stato lontano. Lontano da un tramonto, da qualche amico innamorato, da un pianoforte che non ho mai suonato, da una donna che ormai ho perduto. Sono andato lontano per il gusto di farlo, senza avere risposte da cercare, senza chiedermi quanto sarebbe durato. Ho passeggiato per le strade d'Europa, ho incontrato migliaia di facce che non ricordo, ho mangiato kebab e cheeseburger, ho bevuto birra annacquata. Mi sono specchiato nel finestrino di un treno che tagliava la notte di Francia, ho visto morire un piccione, ho fumato erba con un tizio di Potenza alla stazione di Madrid. Ho imparato a dire posacenere in inglese, mi sono perso al Louvre e ho capito che non bisogna innamorarsi di donne bellissime…
La strada indicata si palesò con le sue pozzanghere di caldo ad effetti ottici. Si contorceva tra case basse figlie di un abusivismo antico, non offriva panorami o visioni. Il popolo era assente, rinchiuso dietro i legni delle finestre, dormiente o disinteressato al pomeriggio torrido del dopo pranzo. Il sudore lo incollava al sedile, seguiva l'asfalto verso una direzione improbabile con la crescente sensazione di perdere tempo, voglia o un'altra occasione. La strada saliva, tagliava per una campagna coltivata a frigoriferi e cessi, poi si allargava, diventava ponte e città. Cercò la via tra palazzi che si facevano borghesi, affogati nel verde artificiale delle aiuole. Una svolta improvvisa, discesa, ancora palazzi. Numeri pari a destra, dispari a sinistra. Il parcheggio si trasformò in un magistrale gioco di frizione. Si sentiva sicuro adesso, allungò il passo verso un cancello che si spalancò in un ronzio di fotocellule, una voce gracchiò per indicare il portone. La camicia era diventata pelle, le scale brevi, l'aria fresca. La porta si aprì in un tripudio di seni e sorrisi. Improvvisò un saluto imbarazzato, fu trafitto dalla crudele e familiare sensazione di avere una straordinaria faccia da cazzo. 



C'erano state parole leggere e lacrime trattenute. Acustici accordi avevano trascinato il pensiero che si era fatto ricordo. Ci furono passi simili di padre e figlio, ci fu un raccontarsi, un camminare deciso e soddisfatto. E poi c'era Roma, calda e deserta, affogata nella sua notte favolosa. Arrivò anche la stanchezza e il ritorno verso il Lido, una strada pattugliata di lampeggianti e la radio che non faceva il suo dovere. Pensai ai racconti di mio padre e ai suoi giochi di bambino. Provai ad immaginare i volti, le urla, le risate nella polvere. Seduto sul letto, guardai l'orologio: le 7.03.




